Normativa italiana sulla cannabis light: facciamo chiarezza

Lo status normativo della cannabis light in Italia è ancora poco chiaro e preda di incertezze normative e di interpretazioni talvolta discordanti tra loro.

Di base la logica suggerirebbe che i prodotti a base di questa pianta non dovrebbero costituire un argomento particolarmente ostico da normare in quanto sono espressamente pensati per non avere alcun effetto stupefacente. Il loro contenuto in THC, infatti (il cannabinoide responsabile delle proprietà narcotiche della cannabis), è irrisorio in tutti loro.

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Tuttavia, ciò non toglie che la situazione normativa in questo ambito sia alquanto complessa e, per questo, poco conosciuta al grande pubblico.

Nel seguente articolo cercheremo di offrire una panoramica chiara su quella che è la normativa italiana sulla cannabis light, evidenziando le zone grigie che ancora la affliggono.

Lo status legale della cannabis light in Italia

La legge italiana sulla cannabis light, specificatamente la Legge n. 242 del 2016, rappresenta un passo significativo nel quadro normativo relativo all’utilizzo della canapa. Tale norma, entrata in vigore a gennaio 2017, ha stabilito delle linee guida chiare e definite per quanto riguarda la coltivazione e l’impiego della cannabis sativa depotenziata, caratterizzata da un contenuto di THC (Tetraidrocannabinolo) inferiore allo 0,6%.

La normativa italiana sottolinea specificatamente l’importanza della cannabis light per vari usi industriali e di ricerca. Tra questi, rientrano:

  • produzione di alimenti e cosmetici;
  • materiali per industrie e artigianato;
  • bioingegneria e bioedilizia;
  • bonifica di siti;
  • ricerca e didattica;
  • florovivaismo.

È importante rilevare che, nonostante la legge non vieti esplicitamente l’uso ricreativo della cannabis light, tale utilizzo non è neanche esplicitamente consentito e le autorità sono solite interpretare la norma in maniera piuttosto restrittiva, con possibili ripercussioni in caso di consumo del prodotto a questo fine.

Il ruolo del coltivatore nella Legge 242 del 2016

Nel contesto della legge italiana sulla cannabis light, la figura del coltivatore assume un ruolo centrale, sia sotto il profilo della regolamentazione che delle responsabilità. La Legge n. 242/2016 stabilisce criteri precisi e obblighi specifici per i coltivatori di cannabis sativa depotenziata, enfatizzando l’importanza del rispetto delle normative per garantire la sicurezza e la conformità del prodotto.

Innanzitutto vi è l’obbligo di acquistare semi di cannabis light che siano certificati a livello europeo. Questo assicura che le piante coltivate rispettino i limiti di THC imposti dalla normativa, riducendo il rischio di superare la soglia legale di THC.

I coltivatori sono altresì tenuti a conservare le etichette dei semi acquistati per un periodo di almeno 12 mesi. Questa misura facilita il tracciamento delle colture e fornisce un ulteriore strumento di verifica in caso di ispezioni o contestazioni.

Le autorità competenti, come Carabinieri e Guardia di Finanza, possono effettuare controlli a campione sulle coltivazioni. È fondamentale che tali controlli avvengano in presenza del coltivatore e, in caso di riscontrate anomalie nei livelli di THC, le stesse autorità hanno il diritto di sequestrare e distruggere la piantagione.

Ambiguità normative e interpretazioni della Legge sulla cannabis light

Nonostante la chiarezza in alcuni aspetti della regolamentazione, persistono alcune aree di ambiguità, soprattutto per quanto riguarda la commercializzazione della cannabis light.

Come detto in precedenza il disposto normativo non copre in modo specifico l’uso ricreativo della cannabis light, rendendo il panorama legale ancora più complesso per i coltivatori e i commercianti e aprendo la porta a interpretazioni spesso discordanti tra loro, culminate in importanti sentenze della Corte di Cassazione. Queste decisioni giudiziarie hanno contribuito a delineare meglio il quadro legale, ma hanno anche introdotto nuove complessità.

In particolare le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, con la sentenza numero 15 del 30 maggio 2019, hanno stabilito che “La commercializzazione di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, e che elenca tassativamente i derivati della predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/90, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”​.

Tale sentenza non ha di fatto costituito una minaccia alla libera circolazione del CBD nei termini dettati dalla Legge 242, anche in virtù del fatto che i prodotti a base di cannabidiolo sono, a tutti gli effetti, privi di efficacia drogante. Tuttavia è stato un primo campanello d’allarme, poi suonato ancora una volta con il Decreto anti-CBD di quest’anno, da poco sospeso da una decisione del TAR del Lazio.

Insomma, tutto questo evidenzia l’esistenza di un’area grigia nella legislazione italiana riguardante la cannabis light. La mancanza di chiarezza ha comportato una certa confusione tra coltivatori e commercianti, con implicazioni dirette sulla gestione delle attività commerciali e sulla percezione pubblica della legalità del prodotto. Non possiamo che augurarci che, in un modo o nell’altro, il legislatore intervenga una volta per tutte per chiarire definitivamente la questione.